Ecco, adesso e' la stazione, quella
giusta, quella che ho aspettato di cartello in cartello blu con la scritta
bianca che passa veloce o rallenta e ti si ferma affianco, si nasconde oltre il
finestrino, dietro il capo del prelato o dietro il cappellino col fiocco nero
della signorina spagnola, sola occidentale di una piccola comitiva in vacanza
studio.
Sono accenti ucraini, russi, polacchi
quelli che si intrecciano a storpiare il nome della stazione in cui mi aspetti
da tre ore e al posto di un raffreddore metti il sorriso, un piccolo golf
morbido di lana sui jeans piu’ chiari attorno al tondo del sedere, niente
trucco sul viso, fumetti dalle labbra, sul ciglio, insieme a me, di un piccolo
delirio.
Cosi’ arrivo, scendo e sei come ti ho
immaginata. Tu mi vedi da lontano arrivare. Io vedo le tue labbra e le seguo,
le scorro, le raggiungo e disfo i bagagli prima ancora di raggiungere la stanza
d’albergo che hai affittato, scelta come solo tu sai scegliere le cose. E
tuttavia non aspetto, e ti bacio sul marciapiede. Non come la prima volta che
attesi passi e silenzi e sospiri. Tutto in uno, ingoio il boccone della tua
morbida indecenza, questa ingenuita’ che santifica l’ebbrezza.
Abbiamo la febbre, o almeno sembra, mentre coi
riccioli neri mi copri il naso che t’annusa il collo e, insomma, passeggiamo
sperduti, annodati come ventole piegate su esse stesse, nuvola il marciapiede,
fiume la strada, antro di un bosco il portone d’ingresso, rocce fatate le
scale, fresca frasca a chiusa del nido l’ultima porta col numero sopra. Siamo
dentro. Ricordi quale numero c’era affisso sull’uscio del nostro regno?
Cosi’ mi spoglio, completamente nudo, e il pene e’
una scheggia di metallo piantata tra le gambe. Ti chiudi a riccio, riccio
pallido rosato alle guance, seduta sul letto. E’ cosi’ che ti scendo affianco e
ti bacio e mi baci e si scioglie la guerra e comincia la pace, la festa per il
rinvenuto capo di un filo smarrito. E sei nuda adesso, e con me nella doccia
giochi a essere femmina, sola e reale, sola e possibile, sola ma capace di tenermi la carne in pugno e
spremermi da quella il cuore. Lo spirito. L’anima per altri versi e altri
luoghi inesistente.
Il getto d’acqua ti appiccica i capelli alla fronte.
Incollata al viso trovo la tua piccola serieta’ smarrita. Mi afferri il pene e
scivoli con l’acqua lungo il corpo.
E’ cosi’ che ti insegno a cantarmi la tua devozione.
Dall’alto dei mondi, penso, siamo tutti angeli
abbracciati nella trama di una catena. Ma qui tra la polvere, sotto le foglie
dei rami dei castagni, ad uno ad uno ci incontriamo, capi di un ponte, ingresso
e uscita ad oltranza e verso il mare, con l’orizzonte a fare specchio sulla
nostra fronte.
E’ questa dunque la bramosia e cio’ che propone:
nelle carni aperte che accolgono la cenere, due giorni di regno e poi la morte.
***
Metallica.
I freni stridono sui binari, la locomotiva
incespica, i vagoni salgono l’uno sopra all’altro, flettono la retta che li
livella in corsa, come un arco, come una molla.
Adesso sanguini dal naso, sei emaciata. E’ la fatica, o e’ quello che si
perde ad essere in tante. O quello che si guadagna a non essere la sola.
Insomma, ti trovo persino civettuola mentre quasi esanime ti addormenti
affianco a me, sopra al braccio. Come se non fossi io il tuo carnefice, come se
non avessi bisogno tu di coraggio per mostrarmi il collo tenero con le vene
verdi in trasparenza che salgono al fresco del sorriso.
Hai scelto, e’ chiaro, dal momento in cui mi hai
preso la mano li’ in strada e mi hai guardato per dire, negando pateticamente
l’evidenza “Ma secondo te avrei davvero
preferito perdere mio padre se mi avessero chiesto un parere? Dici che davvero
mi sarei presa un uomo malato di cuore che ti lascia a cinque anni da sola, se
avessi avuto voce in capitolo?”
Pero’ hai scelto, tu, si che hai scelto, nella vita
e molte volte con noncuranza, con distrazione, dissimulando come in lotta tacita e solitaria contro un destino
avverso. Che dolore sentire che il mondo non ti vuole! E’ cosi’ che hai scelto
il primo amore. Quello che ti ha strappato 10 anni di silenzio e tutte le
parole. L’hai preferito a volare nella leggerezza frivola dei vent’anni. E chi
te li ridara’ piu’ tesoro mio? Una vecchia troia ha canali in volto dove
scorrono lacrime, e non fossette sull’angolo del sorriso, non gonnelline al
vento ne’ odore di passera a spirale sui prati, fin sopra la nuvola e poi a
ripiovere nel venticello primaverile che porta consiglio, sbadiglio, e cesti di
fragole rotonde passate per minuti forellini, invischiate di zucchero, panna,
caffe’. E hai scelto con ponderazione pure, altre volte. Sacrificando,
condannando per aggiungere circostanze piacevoli alla madre che ti guarda, al
nonno, e al padre che anche lui osserva, dai cieli. Santificata murata nella
stanzetta, spalmata sui libri. Nel grigio. Una formica. Quando invece le
piastre d’oro sconvolgono solamente i re, e tutti gli altri lasciano
indifferenti. Non credi? Volare sui prati ancora portata da quel venticello,
chissa’ come ti avrebbe saputo somigliare? Ti immagini, senza contatti con
nulla che provochi il male, con nulla che gratti le ferite, con nulla, nessuna
parola, nessuna morale, e nessuna autorita’ a piegarti alle sue bizze? Nessuna
zavorra. Nessuna colpa. Una piuma come sei tu in realta’. Leggera, pronta a
volare. E io lo so, hai scelto addirittura e pure per impotenza, ti e’ capitato
in qualche circostanza. Perche’ la resa e’ una scelta, che puo’ salvarti
dall’annientamento.
Ciononostante annientata sembri adesso, mentre mi
dormi affianco, nuda in questa stanza affittata da te, scelta come solo tu sai
scegliere le cose.
***
Tutto porta il segno del presente, in questo luogo.
Ci sono aloni d’ombra sulla luce fioca e ci sono riflessi fulgidi nei punti in
cui il buio saprebbe altrimenti ingoiare ogni cosa.
Tu dormi e io ingoio un mezzo sospiro, infatti, ripensando al tempo arenato, alla spiaggia in
cui muore l’immenso bianco misterioso cetaceo e di conseguenza e ancora a
questo posto fatato.
Ricordi
quale numero c’era affisso sull’uscio del nostro regno?
Questo ti chiedero’ quando aprirai gli occhi, e non
vedo l’ora che sia perche’ non c’e’ futuro e infatti e’ adesso, e’ adesso che
accade, e io chiedo e tu gesticoli con le ossa della mano tese, rigide, e ridi
colta in fallo sopra al letto largo che occupa quasi tutto lo spazio e
scappando, come se troppa gente affollasse la stanza all’improvviso, dirigi
frenetica lo sguardo al piccolo armadio, al comodino col telefono, al vaso di
fiori e al lampadario cosi’ basso che se vuoi lo tocchi. Come se troppa gente fosse diventata la mia sola
carne, al risveglio.
Del resto
nulla piu’ sara’ come prima. Te lo leggo in faccia e ancora non sai di
averlo pensato. Nel regno-nella stanza-nel carrozzone, nella tua testa insomma,
ormai tu sei un burattino e io sono il Mangiafuoco. Allora trattieni il fiato
pronta a contare. Con uno starnuto ti salvi dalla brace. Con un secondo
starnuto ti riempi la pancia. Con un terzo e di grazia ti rimando da tuo padre
insieme a 5 zecchini d’oro. Ma tuo padre e’ morto da 30 anni. Mi sai dire per
chi ti conservi, allora?
Adesso la febbre e’ salita, sull’altopiano insieme a
noi, con le nuvole bianche da cui spuntano massi bruni, la tua poca carne
cucita sopra allo scheletro di pino. Fossi stata di frassino saresti risultata
giusta per coprirci dal mondo, con un numero affisso sopra alla schiena e da
dimenticare.
Tanto la febbre e’ salita ma non s’e’ udito un solo
starnuto e sono io a contare, e ti conto le vertebre, in barba al giorno in cui
dicesti che mai nessuno ti prese da dietro e nessuno ti ci avrebbe presa mai.
Ora con un leggero gesto del capo porti la durezza che resta, il residuo . Nel
sorriso la stessa rigidita’ delle nocche, delle dita.
Copro col nero il tuo viso. Ti sciolgo. Svanisci.
Rimango solo nella stanza che tu hai scelto come solo tu sai scegliere le cose.
Io, sopra un letto largo che occupa quasi tutto lo spazio, a guardare piccoli
armadi, comodini col telefono, vasi di fiori e lampadari cosi’ bassi che se
vuoi li tocchi. E un pinocchio nudo con la benda nera sugli occhi.
***
Metallica.
I freni mordono i binari, si tendono i cavi. Il
burattino, issato al soffitto, svanisce nel fuoco di prospettiva assieme al
capo del prelato e al letto grande che occupa quasi tutto lo spazio, li’,
proprio nel punto in cui arriva col becco un cigno a sventare il disastro. E
tuttavia il cigno e’ in ritardo, s’e’ perso nel leggere un nome sopra al
cartello della stazione, a spiare un maglioncino e mille altri ammennicoli
da disperate disuguaglianze, a racimolare le distanze, le fissazioni, le
emozioni scontate, rincarando la dose con qualche commento infelice. Con un
pargolo dentro una scatola depositata a pochi metri dal nido. Dimenticata come
una promessa o come una cesta di olive in questo universo metallico. Cubi
di latta al posto del cranio e del cuore dove ogni sillaba cozza e sballa, ogni
visione distorce, tutto acquieta o sobilla, a seconda della situazione.
Cosi’ la signorina spagnola dice… mi hai
fatto la prima lezione di politica della vita. Povera creatura,
penso io. E intanto cucino vasetti dentro pentoloni bigi, in un sogno, non qui,
non ora dove io muoio di delusione se cadi, ma piu’ ancora mi spengo e mi
assento sopra il tuo dolore che mi spreme le ossa, e diocane imprecare
non basta, non basta a dire che questo universo e’ vuoto, che non c’e’ logica,
non c’e’ morale, non c’e’ etica. C’e’ solo un giorno identico a esso stesso,
sempre uguale nei momenti in cui fuori piove e batte l’acqua sui
tetti e tu dormi serena, e nei momenti in cui il sole s’abbassa oltre la valle
e ti splende il sorriso, che scegli ogni volta come solo tu sai scegliere le
cose. E intanto mi insegni, sapiente, che questa vita dimentica. Dimentica il
cruccio e il vantaggio di non essere la sola.
Ecco, adesso e' la stazione, quella giusta, quella
in cui mi baci d’istinto e io amo il tuo istinto, e balliamo al binario
cantandoci in bocca, e giriamo e ridiamo e, insomma, non siamo piu'
soli, e ci fermiamo a ogni angolo di questo istante, ci nascondiamo ridendo,
facciamo ad acchiapparci e viviamo insieme di quello che resta, di quello che
avremo, di quello che e’, di questi universi nascosti in cui si va per fare
l’amore e di quello che la gente chiama per sempre, guardando
altrove.
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